10 luglio 2009. Enrico Genovese racconta “La camera chiara” di Roland Barthes

Enrico Genovese racconta...

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Questa digressione intorno alla fotografia, scritta pochi mesi prima di morire, risulta forse il testo più penetrante di Roland Barthes. L’opera appare nettamente divisa in due parti. La prima assume la veste di un vero e proprio saggio: la fotografia “medium bizzarro, nuova forma di allucinazione” e il suo rapporto con il Tempo e lo sguardo dell’osservatore, vengono scrutati attraverso un certo numero di “casi”, fotografie con le quali l’autore ha stabilito una speciale corrente empatica, una sorta di attrazione, della quale tenta di spiegare le origini. Barthes distingue sottilmente, in ciascuna immagine, un campo d’interesse culturale (che egli chiama lo studium), da quel sussulto, improvviso turbamento che talora attraversa tale campo, che chiama il punctum. Esso altro non è che il Tempo, l’enfasi straziante di ciò che è stato, la sua raffigurazione pura.La seconda parte è, invece, incentrata su motivi più autobiografici, per quanto rintracciati con puntiglio obiettivo. Il ricordo della madre si mescola all’esigenza, profondamente sentita, di penetrare dentro di sé per trovare l’evidenza della Fotografia. La discesa, quasi proustiana, nei meandri della memoria si unisce ad un discorso che è allo stesso tempo interrogazione, dialogo, ma anche confessione. E in conclusione le riflessioni si fanno quasi premonizione, quando l’autore si sofferma ad analizzare, contestualmente alla fotografia e al suo rapporto con l’immagine, lo storico e l’effimero in cui tendiamo, consapevolmente o meno, ad immergerci sempre più. La follia, quell’assoluta ingovernabilità della Fotografia, quel turbamento che essa può suscitare inconsapevolmente, viene, per così dire, addomesticata dalla sua trasformazione in arte. Ed è questo ciò che avviene nella nostra società, fa rilevare Barthes, dove noi viviamo conformemente ad un immaginario generalizzato. “Ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate”, afferma, “è che oggi tali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più false, meno autentiche, cosa che, nella coscienza comune, noi traduciamo con l’ammissione di un’impressione di noia nauseante, come se, universalizzandosi, l’immagine producesse un mondo senza differenze e indifferente”. Paradossalmente la fotografia, nonostante la realtà del soggetto che rappresenta, finisce col realizzare completamente il mondo umano dei conflitti e dei desideri. L’eterno conflitto tra identità e verità si agita in ogni immagine fotografica. Ecco allora l’affermazione che la Fotografia “è violenta”. Non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta “riempie di forza la vista”, poiché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi. Questo richiama un’interessante discussione antropologica sul rapporto tra immagine e Morte. La Fotografia in fondo, nella fissità dell’immagine, produce la Morte volendo conservare la vita. Ecco, infine, spiegato il perché del titolo: non la camera oscura, bensì la camera chiara, perché in definitiva l’essenza dell’immagine è di essere tutta esteriore, “senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea dell’interiorità”, di essere senza significato, pur evocando la profondità di ogni possibile senso.

Stefania La Via

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